Sardegna: Tra Speculazione e Incubo Nucleare, Esiste una Terza Via

La nostra terra. Un'isola scolpita dal vento millenario, bagnata da un mare che il mondo ci invidia, il cui profumo di mirto, di ginepro e di elicriso è l'essenza stessa della nostra anima. Un luogo che per millenni è stato culla di una civiltà unica, santuario di tradizioni, casa. Oggi, però, quest'isola, la nostra casa, è al centro di un gioco cinico e spietato, e il suo futuro è appeso a un filo. Un'ombra scura, un orrore che credevamo sepolto per sempre nei libri di storia, si allunga minacciosa sulle nostre coste: l'ombra del nucleare.

Le proteste che infiammano la Sardegna sono il sintomo di un malessere profondo e antico. Non sono il "no" bigotto di un popolo che rifiuta il progresso, ma il grido di rabbia e di dignità di chi si sente, ancora una volta, colonizzato. Vediamo le nostre colline, i nostri orizzonti unici al mondo, sfregiati da selve di pale eoliche e da sterminati campi di pannelli fotovoltaici, e una domanda sorge spontanea e carica di frustrazione: dov'è il beneficio per noi? L'energia prodotta lascia la nostra isola attraverso cavi sottomarini, mentre a noi restano le briciole, un paesaggio violato e la sensazione amara di un ennesimo saccheggio.

È proprio su questa rabbia, su questo legittimo e sacrosanto sentimento di espropriazione, che si innesta la manovra politica più subdola. Il nostro dissenso viene strumentalizzato, usato come pretesto per spalancare le porte all'inferno. Ci viene detto, più o meno velatamente: "Vedete? I sardi non vogliono le rinnovabili. L'isola non è adatta. Non resta che una soluzione per garantire l'energia: il nucleare".

Ed eccolo che si palesa, il cavallo di Troia. Non ce lo presentano con il volto mostruoso e arrugginito di Chernobyl, ma con il sorriso rassicurante e moderno dei "mini-reattori" (SMR). Ce li descrivono come giocattoli tecnologici: piccoli, sicuri, efficienti, quasi "ecologici". Una menzogna avvolta in un gergo suadente per farci ingoiare l'inaccettabile. E in questa narrazione tossica, la Sardegna diventa il luogo perfetto. La sua distanza dal continente la rende ideale in caso di "improbabili" incidenti; la sua bassa densità abitativa minimizza i "danni collaterali"; la sua presunta, granitica stabilità geologica la candida a deposito nazionale permanente per le scorie radioattive. Scorie che nessuno vuole, che restano un veleno letale per decine di migliaia di anni.

Ci stanno dicendo, senza usare queste esatte parole, che la nostra vita vale meno. Che la nostra terra è un sacrificio accettabile sull'altare degli interessi di qualcun altro.

La menzogna più grande, quella più oltraggiosa, è quella della stabilità sismica. "La Sardegna non trema", ripetono come un mantra. Forse, prima di firmare la nostra condanna, dovrebbero fare una passeggiata nella sagrestia del Duomo di Cagliari. Lì, un'iscrizione graffita su un muro seicentesco urla una verità che hanno scelto di ignorare: "Ad[ì] 4 Juny terremotus factus est 1616" (Il 4 giugno 1616 ci fu un terremoto). Quel giorno la terra tremò così forte da danneggiare il sistema di torri costiere e spaventare la popolazione di decine di villaggi. Non fu un cataclisma, ma fu la prova inconfutabile, scolpita nella pietra, che la nostra isola non è un blocco di granito inerte e immobile. È viva. E trema.

Ora immaginate. Chiudete gli occhi e immaginate. Uno di questi "mini-reattori" o, peggio, un deposito di scorie, nella nostra terra. Immaginate che la terra tremi di nuovo, magari con una forza che la storia ci ha già dimostrato essere possibile. Cosa succederebbe?

Non sarebbe un incidente. Sarebbe l'apocalisse. L'aria, l'acqua, la terra che i nostri avi hanno coltivato, tutto sarebbe contaminato da un veleno invisibile, inodore, implacabile. Le nostre coste, la nostra ricchezza, sarebbero spazzate via non da uno tsunami, ma da un'onda di panico e di radiazioni. Il nome "Sardegna" non evocherebbe più spiagge da sogno, ma diventerebbe sinonimo di disastro, di morte, di contaminazione. Un marchio infame, come Chernobyl, come Fukushima. Pensate ai nostri figli, condannati a crescere in un lazzaretto a cielo aperto. Pensate ai pescatori che non potrebbero più gettare le reti, agli agricoltori con i campi avvelenati, agli albergatori con gli hotel vuoti per sempre. Un'intera economia, un'intera cultura, un intero popolo cancellati.

E dopo? Chi pagherebbe per il disastro? Chi si prenderebbe la briga di bonificare un'isola remota, un sacrificio ormai compiuto? Ci lascerebbero al nostro destino, una terra morta che galleggia nel Mediterraneo, un monito perenne. Quanto tempo ci vorrebbe per risanarla? Centinaia di anni? Migliaia?

Ma commetteremmo un errore strategico esiziale se, per sfuggire a questo incubo, dichiarassimo una guerra cieca e totale a ogni forma di energia rinnovabile. L'errore sta nel combattere lo strumento, e non la mano speculatrice che lo brandisce. L'energia, ammettiamolo, da qualche parte deve pur arrivare. E l'illusione di essere un'isola felice, immune da tutto, è pericolosa. Mentre noi protestiamo, la Francia continua a produrre energia dai suoi reattori. Quale garanzia abbiamo che domani non ne costruiscano uno in Corsica? Un incidente lì, con il maestrale, sarebbe un disastro per noi. Il rischio radioattivo non si fermerebbe alle Bocche di Bonifacio.

Ecco perché la soluzione non può essere un "no" a tutto. Esiste una terza via. La soluzione è prendere in mano il nostro destino. È pretendere una sovranità energetica sarda.

Significa abbracciare le rinnovabili, ma alle nostre condizioni. Stabilendo regole ferree: produciamo l'energia che serve a noi, senza strafare, perché "su troppu stroppiat", e l'eccesso attira solo gli avvoltoi. Significa investire massicciamente nelle tecnologie di accumulo, e perché non diventare pionieri? Le nostre miniere dismesse, cicatrici di un passato di fatica, potrebbero rinascere a nuova vita, ospitando innovativi sistemi di accumulo gravitazionale, trasformando un problema in una risorsa. Potremmo produrre abbastanza energia pulita da diventare noi gli esportatori, vendendo il surplus e trasformando la nostra autonomia in ricchezza.

In questo scenario, suona come un insulto sentire che il 98% del suolo sardo sarebbe "non idoneo". Lo dicano in faccia a quelle migliaia di cittadini e imprenditori sardi che, con coraggio, hanno già investito per tappezzare i tetti delle loro case, i capannoni, le serre. Lo dicano a chi ha dato un valore a quei terreni sassosi e improduttivi. Sono forse diventati tutti illegali? I loro sacrifici per l'autonomia energetica sono carta straccia? Questa è la scusa per bloccare la piccola generazione distribuita, quella che porta benefici reali alla gente, per poi imporci la loro finta soluzione.

La vera battaglia, quindi, non è "pale sì, pale no". La vera battaglia è per la sovranità. Rifiutiamo il diabolico ricatto tra essere la colonia della speculazione e diventare la tomba del nucleare. Esiste una terza via, ed è quella della ragione, della misura e dell'orgoglio. Una via sarda all'energia, che rispetti la nostra terra e garantisca un futuro al nostro popolo.

È per questa via che dobbiamo lottare. La Sardegna non è la vostra colonia, né la vostra pattumiera. È la nostra vita. E sta a noi, e a nessun altro, decidere del suo futuro.

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