“Bene demaniale”, la sentenza che trasforma la filatelia in reato - La Stampa

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Pubblicato il 18/03/2017 - Ultima modifica il 18/03/2017 alle ore 15:58
FRANCESCO GRIGNETTI - ROMA

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Il tribunale di Torino: la corrispondenza tra enti pubblici e privati dal 1840 va archiviata o distrutta. Avere quei francobolli presuppone un atto illecito

120 Milioni di euro, a tanto ammonta l'annuale giro d’affari della filatelia in Italia Il caso A un commerciante del Torinese a Rivoli, è stato sequestrato l’intero stock di corrispondenza in deposito I carabinieri del Nucleo Tutela patrimonio culturale dovranno identificare i documenti uno per uno e stabilire in quale archivio collocarli.


Case d’asta, rivenditori, collezionisti di francobolli e di corrispondenza in generale, lungi dall’essere considerati inoffensivi amatori di antiche carte, sono tutti potenziali briganti. Così almeno secondo una recentissima sentenza del tribunale di Torino, depositata in cancelleria il 22 febbraio a cura del giudice Roberto Arata, che ha condannato un commerciante di francobolli di Rivoli.
La sentenza ha fissato un principio apparentemente astruso, ma rivoluzionario per chiunque maneggi pezzi di corrispondenza tra un privato e un ente pubblico, dal 1840 a oggi: «La procedura di scarto non legittima la libera commercializzazione dei beni “scartati”, ma al contrario i documenti “scartati” all’esito della procedura devono essere distrutti».

La rivoluzione
Il principio è davvero rivoluzionario perché il tribunale stabilisce un assioma che può mettere in ginocchio l’intero commercio filatelico, circa 120 milioni di euro all’anno di fatturato, e soprattutto gettare nello sconforto migliaia di appassionati: secondo il tribunale, tutti i documenti che nel corso del tempo siano stati indirizzati a un ente pubblico sono bene demaniale storico e appartengono allo Stato, perciò il loro posto è negli archivi pubblici; se sono stati “scartati” per le ordinarie procedure di spoglio, vanno distrutti. Ergo, se sono nelle mani di un privato non può che essere per via di un atto illecito. Chi ne faccia commercio, è un ricettatore. Chi li acquisti, commette quantomeno «acquisto incauto».

A questo punto qualunque busta porti l’indirizzo di un Comune, di una Provincia, di una Prefettura, persino di un Priorato o di una parrocchia è sospetta. E siccome nel corso dell’Ottocento erano soprattutto gli ecclesiastici a scrivere perché erano tra i pochi ad essere acculturati, molta parte delle buste che vengono vendute nelle aste italiane con i relativi francobolli sono teoricamente fuorilegge.

Le collezioni
Il gran problema delle collezioni filateliche discende da un Decreto legislativo del 2004, che ha stabilito il principio che i documenti indirizzati a un ente pubblico - Stato, regioni, enti territoriali, enti o istituti pubblici, persone giuridiche private senza fine di lucro, enti ecclesiastici, compresi Stati ed enti dell’Italia preunitaria - sono «beni culturali inalienabili». Ne erano discesi molti dubbi interpretativi, che il ministero dei Beni culturali riteneva di aver sciolto nell’ottobre 2013 con una circolare della Direzione generale per gli Archivi. La circolare stabilisce alcuni elementi di buon senso. Primo, le semplici buste, quelle che portano l’agognato francobollo e l’annullo, non possono essere considerati documenti meritevoli di tutela, a differenza del documento che contenevano; non se ne può presumere «in via generale l’appartenenza al demanio pubblico». Secondo, può essere considerata la «demanialità intrinseca» soltanto per quei documenti che dovevano essere necessariamente conservati, tipo atti legislativi, provvedimenti giurisprudenziali, contratti; per tutti gli altri, prima di definirli «di necessaria appartenenza pubblica», occorre una prova che siano stati sottratti ad un archivio.

E invece no. Il tribunale di Torino ha rovesciato il ragionamento: tutti questi documenti appartenevano a un ente pubblico, perciò se sono sul mercato privato occorre una pezza d’appoggio, ossia il documento di «spoglio» che certifica il non-trafugamento. «L’esistenza delle procedure di “sdemanializzazione” non può, di per sé, essere invocata a decisiva giustificazione del possesso in capo ai privati... per effetto di una sorta di presunzione d’avvenuto scarto». Se il privato non è in grado di esibire la pezza d’appoggio, «deve concludersi che il documento è stato illecitamente sottratto».

Il sequestro
Quanto alle buste, il giudice afferma che «la questione dell’inquadramento giuridico è particolarmente controversa... non può prescindere da una specifica e mirata analisi di ciascun singolo documento».  Al commerciante di Rivoli è stato sequestrato l’intero stock in deposito. E ora sta ai carabinieri del Nucleo Tutela patrimonio culturale di identificarli uno per uno e stabilire in quale archivio vadano collocati.

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