Da Vittime a Carnefici? La Memoria Tradita e il Futuro Incerto del Popolo Ebraico
Il paradosso più crudele e incomprensibile di questa tragedia risiede proprio nella memoria storica. Ci si aspetterebbe che un popolo che ha conosciuto sulla propria pelle l'abisso della disumanizzazione, della persecuzione e del genocidio sviluppasse un'empatia quasi istintiva verso qualsiasi altro gruppo umano sottoposto a oppressione. La sofferenza avrebbe dovuto essere un vaccino contro la crudeltà, un richiamo perpetuo alla sacralità di ogni vita umana. Invece, assistiamo a una reazione di una sproporzione così esagerata da lasciare interdetti. Per colpire qualche migliaio di miliziani di Hamas, ormai ridotti a poche centinaia di combattenti nascosti tra le rovine, si è deciso di polverizzare un'intera striscia di terra, di radere al suolo ospedali, scuole e case, di affamare e assetare una popolazione civile composta per metà da bambini. Questa non è guerra, è uno sterminio metodico che si ammanta di autodifesa. È il tradimento più profondo del messaggio universale che l'Olocausto avrebbe dovuto insegnare all'umanità: che nessuna ragione politica, nessuna vendetta, nessun obiettivo strategico può mai giustificare la persecuzione e l'annientamento di un intero popolo. La memoria della Shoah non è una licenza per infliggere dolore, ma un monito a prevenirlo, ovunque e contro chiunque.
Le conseguenze di questa politica scellerata si estenderanno ben oltre i confini del Medio Oriente, con un'onda lunga che colpirà le comunità ebraiche in tutto il mondo per decenni, se non per secoli. Il processo, purtroppo, è già in atto e segue una dinamica sociale spietata ma prevedibile. Così come per anni, nell'immaginario collettivo italiano, ogni sardo era potenzialmente associato ai rapimenti, allo stesso modo il mondo sta già smettendo, e smetterà sempre di più, di fare una distinzione tra l'ebreo israeliano che appoggia il governo Netanyahu e l'ebreo di Roma, Parigi o New York. Questa pericolosa generalizzazione è alimentata da un silenzio assordante. Mentre le piazze del mondo si riempiono di manifestanti che chiedono un cessate il fuoco e giustizia per i palestinesi, le voci critiche all'interno delle comunità ebraiche della diaspora appaiono flebili, spesso inesistenti o soffocate dal timore di essere accusate di tradimento. Questa mancata presa di distanza, questa incapacità di protestare attivamente contro lo sterminio in atto, viene interpretata come un assenso, un'approvazione silenziosa che lega indissolubilmente il destino di tutti gli ebrei alle scelte di un governo estremista. Si sta così innescando una nuova, terribile forma di antisemitismo, non più basato solo su antichi pregiudizi, ma alimentato dalla rabbia e dall'indignazione per le immagini che arrivano da Gaza.
A questa aggressione via terra e via aria si aggiunge un'arroganza che non conosce confini, nemmeno quelli del diritto internazionale. Gli atti di abbordaggio a navi, incluse quelle di attivisti per la pace o di missioni umanitarie, in acque internazionali non hanno altro nome che pirateria. Un'azione che, se compiuta da qualsiasi altra nazione, scatenerebbe una condanna unanime e pesantissime sanzioni. Ma a Israele sembra essere concesso tutto, in virtù di uno scudo protettivo che sta però iniziando a creparsi. E in questa spirale di violenza, non si può ignorare la responsabilità di chi preme il grilletto. Anche i militari hanno contribuito e stanno contribuendo, perché un soldato, e a maggior ragione un ufficiale, ha il dovere morale e giuridico di non eseguire un ordine che viola palesemente i diritti umani. La dottrina del "ho solo obbedito agli ordini", già rigettata a Norimberga, non può trovare giustificazione di fronte a un ospedale bombardato o a una fila di civili in cerca di cibo falciata dai proiettili. Questo senso di impunità, che pervade la politica e si estende alla catena di comando, non solo delegittima Israele sulla scena globale, ma contribuisce a erodere quel poco di solidarietà che ancora rimaneva, mostrando un volto non più di nazione in cerca di sicurezza, ma di potenza occupante che impone la sua volontà con la forza bruta.
La responsabilità storica di questa catastrofe morale e politica ha nomi e cognomi precisi: Benjamin Netanyahu e i ministri del suo governo. Sono loro gli architetti di questa vergogna. Con le loro decisioni, hanno cancellato con un colpo di spugna ottant'anni di pietà, di empatia e di vicinanza che il mondo aveva faticosamente costruito attorno alla memoria dell'Olocausto. Sono loro la causa diretta di un nuovo olocausto, perpetrato ai danni di due milioni di palestinesi, intrappolati in una prigione a cielo aperto e ora condannati a una morte lenta o a una vita di miseria indicibile. Hanno sacrificato il patrimonio morale di un intero popolo sull'altare del loro fanatismo politico, per una vendetta che non ha alcuna proporzione con l'offesa subita. Questa non è solo una tragedia per il popolo palestinese, è una ferita mortale per l'anima stessa del popolo ebraico. Un'onta che le generazioni future faticheranno a lavare via, un danno incalcolabile per l'immagine e la sicurezza del "popolo di Dio", che si ritroverà più solo, più odiato e più incompreso. Ma mentre la storia si prepara a emettere il suo verdetto spietato, un'altra storia, più silenziosa ma non meno potente, si sta scrivendo.
Oggi, in tutta Italia, anche qui a Cagliari, ci sono cuori che battono all'unisono per gli oppressi e per gli indifesi di Gaza, anche senza scendere fisicamente nelle piazze, dove le folle sono già in marcia da tempo. È un battito di sdegno, di compassione e di umanità che non si lascia zittire dalla propaganda o dall'indifferenza. È la testimonianza che, nonostante tutto, la coscienza non è morta e che la speranza di giustizia, per il popolo palestinese e per la stessa anima del mondo, continua a vivere nel silenzio operoso di chi non si volta dall'altra parte.
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